Racconto di un percorso
Il contesto
Nel 1993 quando io e mio fratello Lorenzo (rispettivamente nati nel 1977 e nel 1973) abbiamo iniziato a gestire direttamente la piccola tenuta di casa a Vigliano eravamo davvero dei ragazzini, ma già allora avevamo le idee ben chiare su quello che volevamo fare: ci siamo detti “o proviamo a fare dei vini con una precisa identità che provino a raccontare il territorio da cui provengono e il produttore che li fa oppure il vino continuiamo a farlo e a bercelo solo noi e i nostri amici”. Visto che la prima scelta non avrebbe escluso la seconda abbiamo deciso di metterci sotto, con l’aiuto dei nostri amici di sempre Guido, Edo, Alfiero e Graziano e con il fondamentale sostegno e la discreta supervisione dei nostri genitori.
Gli anni ’90
Siamo nel pieno del boom del vino in generale, vini ricchi, molto estratti, alcolici e con una decisa presenza di dolcezza da legno nuovo, spesso con tagli da vitigni internazionali e tutti, possibilmente, alla ricerca dei premi delle guide. Sembra, in un periodo euforico come quello, che basti cavalcare quest’onda, a dire il vero molto anomala, e il gioco pare fatto..
È con la vendemmia Vigna dell’Erta 1997, uscita nel settembre 1999, che siam convinti di aver fatto un vino che ci piace e così imbottigliamo le prime 1960 bottiglie: arrivano, ovviamente via fax, i primi ordini importanti, gli importatori e i primi riconoscimenti sulle guide italiane ed estere: per noi, un po’ fuori dal giro e decisamente ragazzini, sono delle punture di adrenalina. Non ci montiamo troppo la testa, anzi forse non ce la montiamo proprio e rimaniamo ben saldi in vigna e in cantina anziché cavalcare quell’onda, senz’altro anomala.
Lo dico ora, nel 2019, a distanza di 20 anni; ma allora, sia mio fratello, appena laureato in Giurisprudenza e ad un bivio professionale che io, nel pieno dei miei 20 anni, non abbiamo avuto la forza e la caparbietà di gestire al meglio quel momento, rimanendo per certi versi spettatori e non protagonisti di quel successo.
Per noi, con le nostre circa 8.000 bottiglie vendute in appena 2 mesi dall’uscita era importante continuare sì a gestire bene la vigna e la cantina, seguire qualche bega burocratica e commerciale, ma anche e soprattutto viaggiare, assaggiare tanti vini, divertirsi, e magari provare a capire che cosa si voleva fare da grandi.
Abbiamo tenuto duro e continuato comunque a fare i nostri vini, anno dopo anno, vini mai urlati, discreti, coerenti e per fortuna anche di successo; interpreti di un’annata e di uno stato d’animo. Di questo siamo comunque orgogliosi e con altrettanto orgoglio possiamo dire di aver tenuto fede con coerenza e fermezza al nostro spirito di allora.
All’inizio, per conoscersi meglio.
Avevamo, Lorenzo ed io, poca esperienza, lontani da qualsiasi impostazione didattica in ambito sia agronomico che enologico, ma ci sentivamo supportati, allora, dalla competenza agronomica di Andrea Paoletti e dal suo modo “leggero” di lavorare sia in vigna che in cantina; con lui siamo cresciuti e abbiamo re-impiantato e impostato le nostre attuali vigne (1993, 1998, 2002); con Andrea abbiamo ulteriormente capito che se l’uva è grande si può fare un grande vino, altrimenti pace. Si impara, e questo è importante, a gestire anche le annate minori. In cantina ci possono essere scorciatoie, ma non per noi. A noi non interessano.
Abbiamo sempre avuto una bella praticità di campagna, quindi con un po’ di studio e di attenzione ai dettagli, una severa impostazione del lavoro in vigna (ovvero tanto lavoro manuale) e di cura in cantina siamo sicuri che i risultati ci sono, eccome se ci sono!
Noi e il nostro modo di fare il vino
Ogni anno è una storia diversa sia in vigna che in cantina: le vendemmie non si ripetono e mai una è uguale all’altra e le evoluzioni di un mosto prima e di un vino poi sono sempre diverse, spesso sorprendenti, altre volte più lineari.
La tua scelta del resto la determini a monte, all’inizio. È una scelta di campo, sia in vigna che in cantina!
O provi a ridurre al minimo i rischi cercando di mettere in sicurezza alcuni delicati passaggi oppure ci metti la faccia fino in fondo e te la giochi. Nel primo caso vai più sul sicuro (non sempre), ma si tende ad appiattire e a non far emergere le tante piccole differenze di una partita di uva rispetto all’altra. Nel secondo caso talvolta sbagli (ma con le piccole vinificazioni separate si tende a ridurre molto il rischio, ma non il lavoro che ovviamente si moltiplica!), impari a interpretare al meglio una piccola massa e a capire quello che succede poi e-o potrebbe succedere. Insomma è tutto più mosso, meno banale e scontato, ma il risultato appare più vero e autentico. Certo se viene fuori qualcosa di non buono, non è buono punto e basta. Questo significa metterci la faccia. Non è corretto giustificare un errore, un difetto, solo in virtù di una scelta autentica, spontanea, artigianale. Se sbaglio o se il percorso che immaginavo non è stato proprio quello che mi aspettavo e il vino che ho non mi piace o ancor peggio non è ben fatto si esclude, si elimina, non si imbottiglia.
Questo è il rischio: io lo corro ben volentieri, mi diverto di più. Ma alla base ci deve essere sempre molta umiltà, studio, ascolto, condivisione, conoscenza e pazienza.
Lo dico ora, col senno di poi.
Vigna prima di tutto, vendemmie con selezioni delle uve fila per fila e vinificazioni separate, brevi rimontaggi, qualche travaso, selezione delle partite migliori. Si separano le masse a seconda del vitigno, della provenienza dell’uva: vasche di cemento per le vinificazioni e/o bin da 10 q.li e/o inox poi si decide quale affinamento e se legno, quale legno, se nuovo, un po’ nuovo, un po’ di secondo e un po’ di terzo passaggio; utilizziamo tonneaux, prevalentemente Taransaud e Francoise Frères; meglio poi se vasche di cemento, in particolare per l’assemblaggio prima dell’imbottigliamento, ma anche per le macerazioni. Abbiamo vasche da 10hl a 30hl e per la maggior parte in cemento.
Questo più o meno è lo schema, molto semplice,del nostro lavoro. Uno schema, che non è una gabbia, anzi è poroso, smontabile e rimontabile: ne abbiamo fatto tesoro, ma nel tempo ho cercato di elaborare, affinare e studiare, insomma di fare mio. Mi sono fatto in questi anni le ossa per poter, seppur tra mille dubbi, camminare da solo, anche rispetto a mio fratello che, pur condividendo insieme a me i passaggi più delicati, ma anche belli, ha intrapreso, con successo, e per fortuna, un altro percorso professionale.
Etica, vigna e vino: autodichiarazione, certificazione,
rapporto fiduciario produttore/bevitore-mangiatore.
In vigna da molti anni utilizziamo solo zolfo e rame: anche per questo motivo dall’aprile 2011 abbiamo la certificazione di un Ente Certificatore Biologico, CCPB. Potevamo anche solo continuare a dirlo, come abbiamo sempre detto, e potevamo anche fare a meno di un Ente terzo che lo certificasse..
Secondo me, se lo fai e dichiari quindi di essere bio-… è corretto avere la certificazione: anche se non nascondo, ma non è questa la sede, che sarebbe serio discutere, con una certa franchezza, il ruolo degli Enti Certificatori, le modalità di controllo, le verifiche e così via… A questo proposito mi è sembrata molto interessante la dichiarazione di Alessandro Dettori qui: http://www.alessandrodettori.net/2014/06/responsabilita/
Il rapporto fiduciario, instaurato da alcuni produttori, [alcuni ci marciano un po’ su, ma fa parte del gioco] sarà la via maestra, in futuro. Il senso è: ci metto la mia faccia, venite a trovarmi, parliamone in cantina e in vigna, passate da me quando volete, fatemi le analisi sui residui a campione. Insomma, non ho niente da nascondere sono quello che dico, dico quello che faccio, faccio quello che dico. Questo, secondo me, ha un senso.
Però ha un senso anche rimanere saldamente coerenti con la qualità che vogliamo in bottiglia e nel bicchiere. Va bene coinvolgere emotivamente chi beve il nostro vino spostando o marcando l’attenzione su come si fa quel vino [fondamentale!], ma è altrettanto importante non derogare sulla qualità di un vino [certo, la domanda è: quale qualità?], in nome di una scelta produttiva alternativa o estrema, per quanto coinvolgente e condivisibile.
Una scelta di campo, prima che un vino. Ma un vino deve essere anche buono.
Altrimenti non si deve vendere.
Non abbiamo mai utilizzato lieviti selezionati in cantina, ma non l’abbiamo mai urlato…solo in questi ultimi anni ho capito quanto fosse diffuso e indiscriminato il loro uso e quindi lo dichiariamo, certo! Adesso iniziamo anche noi a dirlo. Non lo urliamo, ma siccome tutti ce lo chiedono, quindi è corretto dare loro una risposta.
È diventata una curiosità, tanto quanto l’uso dei solfiti e il grado alcolico. Si chiede e io rispondo. Anzi lo scrivo anche in etichetta, ma non lo considero di per sè un elemento sufficiente per fare del buon vino e della buona agricoltura!
Di altre sostanze e additivi non ne parlo, perché non ne conosco nemmeno i nomi. Sull’uso della solforosa non faccio battaglie ideologiche, il suo utilizzo attento, scrupoloso e misurato rimane a tutt’oggi l’unica via per una corretta e sana conservazione dei vini. Certamente una rigorosa gestione delle uve e delle pratiche di cantina determina inevitabilmente le condizioni per una riduzione del suo utilizzo, che ben venga! Ci siamo posti dei paletti, piuttosto rigidi come soglia massima della solforosa totale circa 35/55 mg/lt. Spesso ci siamo ampiamente dentro, altre volte sforiamo un po’, ma quel che conta è non applicare protocolli di cantina ad occhi chiusi. Inevitabilmente investiamo molti denari per monitorare costantemente i nostri vini con attente e scrupolose analisi di laboratorio.
Filosofia: i miei studi*
Non so se sia una fortuna, lo dico anche questo con il senno di poi, ma aver studiato Filosofia, sembrerà strano, mi ha aiutato e mi aiuta, più di quanto si possa immaginare, a fare il vino, a fare agricoltura, ad avere la testa libera. Siamo cresciuti facendo vita di campagna, con le tavolate a pranzo insieme “agli òmini” del posto che ci aiutano nel campo, abbiamo pestato l’uva da piccoli e siamo entrati bambini, perché di corporatura minuta, dentro le vasche per svinare e lavare le pareti delle vasche…
Se non sei a contatto con l’essenza della natura delle cose e della vita quando vivi queste emozioni, specialmente da piccolo, ma quando?
Mi sono posto poche regole: fare esperienza e vivere le cose prima di tutto con passione e amore, senza dimenticare, questo mai, di assaggiare, studiare, leggere e confrontarsi ogni giorno. Di non chiudersi, piuttosto di aprirsi con gli altri e agli altri. Di parlare molto con gli altri produttori per scambiarsi piccole esperienze, anche le più semplici, che per noi piccoli potrebbero davvero cambiare di molto alcune pratiche sia in campo che in vigna.
Il nostro vino vorrei che fosse identificato con me e con la mia idea di interpretare quel vitigno e quell’annata in quel modo, in questo luogo. Voglio che esca la faccia del produttore. Mi sento un umile, ma convinto artigiano.
Adesso sono diventate parole d’ordine sulla bocca di molti e con un certo stupore, ma anche con altrettanta soddisfazione, mi sono accorto che in realtà queste parole mi sono sempre appartenute, le sento dentro, per fortuna.
Paolo Marchionni
A questo link puoi trovare, è solo una curiosità, un abstract della mia Tesi in Filosofia del 2003.
Titolo “La qualità nella filosofia della mente. Analisi di un caso: il sistema gusto-olfattivo.” Filosofia Teoretica – Gnoseologia